di Marina Corradi da “Avvenire” del 19 giugno 2011.
«Fin da piccoli i bambini hanno bisogno di Dio, e hanno la capacità di percepire la sua grandezza.
Sanno apprezzare il valore della preghiera, del parlare con Dio, così come intuiscono la differenza fra il bene e il male».
Tra le righe del discorso rivolto domenica da Benedetto XVI alla diocesi di Roma c’era un inciso rivolto ai padri e alle madri.
Parlate ai vostri bambini di Dio, era il senso di quel richiamo pronunciato con una particolare passione: come nell’urgenza di dire qualcosa che a un vecchio cristiano è evidente, ma che i giovani sembrano non capire con la stessa chiarezza.
Parlare del Dio in cui crediamo ai figli, fin dalla età più tenera. Parlarne, certo, nella loro lingua, e nell’istante delle prime domande; quando guardando le stelle sbalorditi chiedono 'chi le ha fatte' – come fosse già una evidenza, che non possono essersi fatte da sole; quando una persona cara muore, e loro non capiscono, e domandano quando torna – come se fosse un’evidenza, che gli uomini non finiscono nel nulla.
Però parlare di Dio ai figli sembra una capacità come arrugginita fra molti.
Quando i figli sono piccoli perché sembrano troppo piccoli; e poi, d’improvviso, sembrano già grandi, e già dentro altri mondi che gli adulti non possono penetrare.
Pare, a sentire la memoria di chi è più avanti con gli anni, che una volta questa trasmissione fosse più semplice, quando si ringraziava Dio prima di mettersi a tavola, e prima di spegnere la luce la sera si insegnava a tracciare il segno della croce.
Ma questo accadeva in tempi meno complicati, e non assediati dal brusio continuo della informazione globale. Oggi, ci sembra, tutto è più difficile, anche ciò che un tempo era elementare.
Questa complessità però rende più attuale le parole del Papa in San Giovanni in Laterano. Parlate ai vostri bambini di Dio. È un parlare che, prima che sia il tempo di ogni parola, è un modo d’essere.
Il padre abituato a domandare a un Padre non è lo stesso che si presuppone autosufficiente, e non tenuto a rispondere a nessuno.
Il percepirsi 'figli', cioè creature bisognose di misericordia, è uno sguardo su sé che si esercita cento volte in un giorno – è la gratitudine per avere una casa, invece che l’astio perché è una casa piccola, e la felicità per un figlio nato sano, nella certezza che anche questo è un dono.
È lo sguardo da 'figli' che non è più frequente, educati come siamo all’autonomia e alla pretesa.
Di modo che parlare di Dio a un bambino è innanzitutto un guardare a noi stessi di nuovo. Ma poi, superata l’età delle domande splendenti ('Mamma, dove va la fiamma quando si spegne?'), quella in cui quasi sembra che siano loro a insegnare a noi, loro maestri di una misteriosa sapienza rimasta impressa in un recesso dell’anima, che pian piano si sfoca e sbiadisce; poi, viene un giorno – e d’improvviso ti sembrano quasi adulti – in cui chiedono conto, in cui domandano, della tua speranza, la ragione.
Spesso è nell’ora di una delusione che i figli chiedono chi è questo Dio che permette il dolore, e cosa vuole, e perché tu, padre, madre, credi in lui.
Sono domande magari apparentemente casuali, in macchina andando a scuola, o dopo un tg che dice di sciagure. Domande brucianti, però, nell’intensità del detto e non detto. (Tu, perché ci credi?)
E allora conviene togliersi ogni maschera, anche la migliore, e dire semplicemente la verità.
La verità di una fede serena come un mare senza vento, per chi ha questo dono; o anche la povera verità di chi fatica, dubita, ma ogni mattina torna a dire 'abbi pietà di me, Signore'.
Il testimone può passare, allora, oltre le contraddizioni e debolezze.
Come un ritmo dell’andatura inavvertitamente imparato, camminando accanto.
I nostri figli sono liberi.
Non decidiamo noi della loro fede.
Ma non possiamo andarcene, senza avere allungato loro il testimone, in uno sfiorarsi fugace di mani, quasi in un gesto di preghiera.
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