Questa tavola, dipinta nel 1482-83 da Filippino Lippi, era posta sull'altare, il primo a destra, fatto costruire da Francesco Magrini dopo la fine della pestilenza del 1476. Il dipinto faceva parte di una pala più ampia, divisa agli inizi del XVII secolo, quando il Decano fece costruire un nuovo altare.
Filippo, detto Filippino, Lippi è uno dei più grandi artisti italiani del Rinascimento: nacque nel 1457 dall'unione di Filippo, celebre pittore e frate carmelitano e Lucrezia Buti, una monaca che gli aveva fatto da modella per una “Madonna con Bambino”, una volta ottenuta da papa Pio II una dispensa dai voti grazie all'intercessione di Cosimo dei Medici. Filippino lavorò prima nella bottega paterna e poi in quella di Sandro Botticelli di cui seguì lo stile.
La permanenza a Lucca segnò la sua vita artistica grazie alla vivacità della città dove circolavano molte opere fiamminghe per via dei legami dei mercanti lucchesi con il Nord Europa. Poi dipinse a Firenze, Prato, Bologna, Spoleto e Roma, dove seppe reinterpretare l'arte classica per poi tornare a Firenze dove subirà l'influsso delle inquietudini religiose di Savonarola espresse in una pittura che diventa sempre più onirica. Morirà nel 1504.
Nella tavola sono presenti in primo piano 4 personaggi: a sinistra c'è S. Rocco, nato a Montpellier da una famiglia nobile intorno alla metà del XV secolo. Egli donò i suoi averi ai poveri per andare in pellegrinaggio a Roma ma giunto ad Acquapendente durante un'epidemia di peste si dedicò alla cura gli ammalati che aiutava e spesso guariva toccandoli.
A Piacenza, contratto il morbo, per non contagiare altre persone si ritirò in una grotta nutrito dai pezzi di pane che gli portava un cane; una volta guarito mentre stava ritornando a casa fu arrestato in Lombardia come spia e dopo 5 anni di prigionia morì, probabilmente tra 1376 e 1379.
Nella pala viene ritratto come un giovane viaggiatore: si protegge dal freddo con un mantello rosso, ai piedi calza degli stivali per affrontare le asperità delle strade e ripara la testa dal sole e dalla pioggia con un cappello dalla tesa larga; nella mano sinistre tiene il bastone del pellegrino mentre con l'altra si scosta il mantello scoprendo il bubbone di peste inciso.
In piedi accanto a lui c'è S. Sebastiano: nato a Milano nella seconda metà del III secolo, si trasferì a Roma dove intraprese la carriera militare fino a diventare nel 283 tribuno della prima coorte e amico dell'Imperatore Diocleziano.
Il santo, fervente cristiano, sosteneva i suoi compagni perseguitati e incarcerati, seppelliva quelli uccisi e diffondeva la nuova fede. Un giorno mentre era in carcere a sostenere due cristiani che stavano per abiurare, il suo volto si illuminò di una luce divina e convertì tutti i presenti compreso la moglie del capo della cancelleria imperiale a cui ridonò la voce dopo 5 anni di mutismo.
Questi fatti spinsero Diocleziano a far legare Sebastiano ad un palo e a farlo tempestare di frecce; creduto morto fu abbandonato agli animali e soccorso dagli angeli e da S. Irene, guarì, per poi presentarsi di nuovo davanti all'imperatore per convertirlo, ma questi lo fece flagellare a morte.
L'artista dipinge il santo, non nudo come nell'iconografia classica ma vestito come un paggio: un bel giovane efebico con la giacca scura vivacizzata dalle calze arancioni e dall'ampio mantello giallo. In mano reca un freccia e un piccolo ramo di palma, i simboli del martirio.
I due santi sono l'esempio della carità cristiana: Sebastiano portava la buona notizia ai pagani e sosteneva i compagni perseguitati rischiando il suo prestigio sociale, la sua carriera e infine la vita, così come la rischiava Rocco per curare gli appestati, abbandonati e scansati da tutti.
I Miracoli compiuti sono solo il segno di Dio presente e operante attraverso la carità cristiana che è relazione con l'altro senza timori e paure di perdere qualcosa di se.
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